giovedì 13 maggio 2010

Alberto Martini per "Le malie del passato". Il mondo di Giovanni Bertacchi 1

              


                                                               Copertina di Alberto Martini

Il mondo di Giovanni Bertacchi è un libro in progress che si abbina on line a Giovanni Bertacchi Libroweb. E che come quest’ultimo troverà la sua necessaria sistemazione in una antologia su carta stampata. Qui compariranno aspetti, normalmente chiamati peritesto, e cioè immagini, documenti, curiosità, foto che riguardano il poeta del Canzoniere delle Alpi. A corredo della sua produzione poetica ed anche a testimonianza di come, a Chiavenna e in Valtellina, anche grazie alla scuola, il poeta viene ricordato e divulgato inventando uan sorta di manualistica regionale. Necessaria per conoscere la letteratura italiana come già auspicava Dionisotti. Claudio Di Scalzo discalzo@alice.it


IL POETA DELLE ALPI E IL PITTORE DANDY

Giovanni Bertacchi ebbe un fruttuoso rapporto con l’editoria, almeno fino a quando il fascismo e le sue strategie di controllo totalitario non imposero diversamente, e ne è testimonianza la copertina de Le malie del passato (1905): il racconto in versi del poeta è disegnata dai uno dei maggiori incisori e pittori italiani del simbolismo europeo: Alberto Martini. Che avrà anche una pregevole carriera come pittore echeggiante, in anticipo, tematiche surrealiste. Sembra che Martini venisse in visita spesso al Palazzo Vertemate. Ecco, un capitolo da ricostruire sarebbe questo: Martini in Valchiavenna e magari i suoi rapporti con Bertacchi se ci furono o se l’illustrazione fu un’idea semplicemente dell’editore.



Alberto Martini (Treviso 1876 - Milano 1954). Incisore e pittore. Determinante lo studio di Dürer. La sua grafica: disegno, incisione, ex-libris, illustrazioni, ebbe il momento di maggior fama quando essa si riversò nel rapporto con I racconti Straordinari di Edgar allan Poe, (1905-1908). E con le Feste Galanti del poeta francese Verlaine, (1911). Il mondo di Martini era assolutamente legato alla stagione simbolista e decadente. Nelle sue opere compare sempre il misterioso e l’ambiguità del reale. Anche la copertina rimanda a questa vocazione. Rendendo decadente quanto invece, nei versi di Bertacchi, è vocazione semplicemente malinconica e umanitaria. Nel 1928 Arturo Martini si trasferì a Parigi. Frequenterà gli artisti legati a Breton ma non aderirà al movimento surrealista. Nel 1934 ritornò a Milano e qui visse appartato fino alla morte.



                                                                                    Alberto Martini: Autoritratto




   

giovedì 6 maggio 2010

GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB 9: Percy, l’anima italica e il Pantheon del futuro.



                                                              Cimitero Acattolico di Roma




GIOVANNI BERTACCHI


LIBRO-WEB 9


Il poeta chiavennasco raccontò su La grande illustrazione d’Italia come si era messo sulle tracce dei “grandi poeti stranieri”, facendo una specie di Grand Tour che imponeva l’amore per i poeti letti e studiati, in questo caso i romantici inglesi, e una specie di calco da riproporre ai lettori composto di giornalismo culturale, si direbbe oggi, e di geografia delle idee. Claudio Di Scalzo


PERCY, L’ANIMA ITALICA E IL PANTHEON FUTURO

Del resto, più che da mala disposizione di Shelley, i suoi giudizi sul popolo italiano erano dettati da una ragione d’amore. L’Italia è così, perché schiava. I veneziani sono vittime delle orde austriache, da cui è oppresso questo miserabile popolo non più vivo, ma immerso in un sogno pieno d’angoscia e di oscuro terrore; in Roma la vita di trecento prigionieri in ceppi che estirpano le erbacce di Piazza San Pietro gli dà l’immagine del servaggio d’Italia. Venuto nel paradiso degli esuli e dei paria, esule e paria egli stesso, egli sapeva di incontrare dei fratelli di miseria e di esilio nei figli medesimi di questa terra e sentiva, in fondo al cuore, di amarli. Non appena il fremito della libertà, nel ’20, comincia a correre le contrade d’Europa e anche il mezzogiorno d’Italia ne è preso, egli, sperando vederlo comunicato alla sua lontana Inghilterra lo traduce nelle due odi solenni a Napoli e alla Libertà, suscitando nel canto le città italiche, belle e fiere come amazzoni, ciascuna con la grandezza sua: «Dalle isole tutto in su fino alla Alpi gelide, l’eterna Italia riscuotesi. Il mare onde son lastricate le solitarie vie di Venezia ride di luce e musica. Genova fatta vedova, pallida, al lume di luna sillaba gli epitaffi dei propri antenati, mormorando: - Ov’è Doria? – La bella Milano nelle cui vene lungo tempo corse – paralizzante – il velen della vipera, alza il tallone per schiacciar la sua testo... Firenze, sotto il sole, delle città la più bella, ha il volto soffuso di porpora per la speranza della Libertà...». È l’avvento, per allora immaturo, della patria mostra, al cui nome il poeta canta così: «Ciò che il sorger del sole è per la notte, ciò che il vento del nord è per le nubi, come l’ardente foga con cui il terremoto, passando, fa rovinar montane solitudini – eterna Italia! – quelle tue speranze e quei timori tuoi siano per te!».


* * *


Chiameremo noi col solo nome di ospite questo straniero che, giunto da poco fra noi si accampa con palpito così fraterno sulla soglia del nostro risorgimento? Nulla egli trascurò di quanto potesse introdurlo nel secreto dell’anima italica. Si avvolse inorridito negli anditi bui dei Piombi e di Sant’Anna, ove rivisse la passione del Tasso; si inebriò nelle tele del Correggio, di Raffaello, del Rosa; dalla Beatrice Cenci attribuita al Reni trasse ispirazione alla sua più profonda tragedia, che è la tragedia di una età e di una società italiana; non parve apprezzare degnamente nelle Sistina gli affreschi di Michelangelo che Camillo Boito definì “una tempesta del Bello”, ma sulla Medusa leonardesca scrisse versi di una potenza sinistra, simili ad altri suoi dai quali, per entro gli elisi eterei delle più delicate visioni, irrompono a tratti fasci di tenebre solcati dai lampi del Terrore e della Desolazione.
Nato anglo-sassone, possedette fin nelle sue grazie più occulte l’idioma d’Italia; penetrò a pieno nelle non facili intimità della poesia petrarchesca e ne svolse i Trionfi, innovandoli, sublimandoli in quel Trionfo della vita sulle cui vette egli salì per valicar nell’eterno. Avverso a ogni culto o dogma, ci insegnò una preghiera nuova, leggendo il Paradiso dantesco nella penombra del duomo di Milano; ripigliati i motivi del Convivio e della Vita Nuova, austeri di fredde astrattezze, pervasi di mistici sgomenti, irraggiati d’un riflesso un po’ pallido di ignote albe sideree, vi immise una più calda passione di vita, li rincolorò di tutte le tinte del creato, li rinutrì delle linfe dei sensi, perseguiti, blanditi, svolti l’uno dall’altro e l’uno all’altro intrecciati, dal colore al profumo al suono, in un processo continuante e cangevole, fin che essa, la parola, sembra venir meno sui cigli dell’infinito.
Certo lo spirito di Dante visitò per tempo il cuore di questo estatico aedo, che riconobbe la terra per salutarla dall’alto e in ogni donna vide un’Idea che lo congiungesse all’universo... «C’era un giovane – scrive egli stesso, in italiano – il quale viaggiava per paesi lontani, cercando per il mondo una donna, della quale esso fu innamorato». Nessuna patria terrena ospitava la donna anelata da lui: ma, di tutte le contrade, questa a cui egli venne per morire era la più vicina al suo sogno.
Per morire, per rinascere.
Se un giorno Roma erigerà un Pantheon al ricordo dei grandi Figli adottivi che ci amplificarono l’Italia, Percy darà fra gli eletti. Il verso di Enotrio nostro esalterà nel marmo l’effige del titano virgineo e i maggi latini rinnoveranno un loro tributo di rose al poeta del mondo liberato e della Favola eterna...


da La grande illustrazione d’Italia, settembre 1924



    

GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB: 8° capitolo. Chiavenna in cartolina

Giovanni Bertacchi svolse un’ampia attività di divulgatore delle bellezze di Chiavenna donando versi per didascalie a cartoline e per illustrare pagine di riviste dedicate al turismo. La lettera che pubblichiamo ne è una testimonianza. Se poi i lettori-navigatori e i custodi di memorie bertacchiane volessero aggiungere a questi versi le relative cartoline, come curatore di questo Libroweb, sarei lieto di ospitare tali immagini.



 
                                                                   Chiavenna sulla Mera


BERTACCHI E LE DIDASCALIE PER CARTOLINE DI CHIAVENNA


Chiavenna, 15 dicembre 1933

Carissimo,
ti accludo la tiritera calista. Se si deve leggere,
bisogna farne parecchie prove. = Vorrei poi pregarti di trascrivermi a
macchina, senza firma, le strofette seguenti e di rinviarmele con l’originale.
Grazie di tutto
tuo Giovanni


= Per la veduta di Chiavenna incorniciata dalla pianta:

Tutta la culla delle tue memorie,
buon Chiavennasci,di quassù si vede,
incoronata dal gran ramo arboreo
che si marca su lei come una fede.


= Per il sagrato in cui campeggia il campanile:

Sindaci ed arcipreti in serie antica
si successer nell’umile città.
Ei sol rimane; e par che benedica
ogni fede,ogni usanza ed ogni età.


= Per la veduta dello scoglio con birreria sul Mera

Scoglio e terrazzo ove sognai le prime
mie fantasie tra i cantici dell’onda,
e dove mi mescea la birra bionda
una musa gentil che non è più.


= Per la veduta del così detto cortile romano:

Di qual tempo mai sia questo cortile
non t’importi saper, visitatore:
alle case degli uomini lo stile
vien dai ricordi che v’aggiunge il cuore.


= Per la veduta complessiva del Borgo:

Fissa,Posina,il borgo mio paterno,
qual negli anni lo vidi e ognor l’amai,
prima che giunga il picconiere odierno
e in quattro colpi me lo butti giù.



  

GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB: 7° capitolo. Scritti di viaggio su Shelley




                                                                     Percy Bisshe Shelley
 


Scritti di viaggio su Shelley

Il poeta negli anni venti, inaugura una serie di viaggi sulle orme dei grandi poeti stralklusnieri che visitarono e scrissero sull'Italia e in Italia. Bertacchi di fatto inventa un Gran Tour calcato su altre tracce, anche poetiche, e di suo ci mette il piglio giornalistico e la sua ben nota enfasi. Un enfatista in viaggio? Sembrerebbe di sì. La sua predilizione va ai poeti romantici, Shelley su tutti. Lo Shelley dal destino di annegato ritrovato sulla spiaggia di Viareggio e lì bruciato su di una pira dall'amico Byron e dalla moglie Mary che ne ha salvato il cuore in una teca di cristallo. Lo Shelley che alla delicatezza univa una viva passione laica e libertaria. Alcuni dicono anarcoide.
Quanto qui compare è la parte finale di un articolo-saggio comparso su La grande illustrazione d'Italia nel 1924.
La parte più ampia è presente nell'annuario di Tellus, il 27, Dalla Torre pendente alle Alpi, con il titolo emblematico di "Un alpino a Viareggio" anche se nel suo "viaggio" Bertacchi racconta Shelley pure a Pisa e sul Serchio.

Percy Shelley, l'anima italica e il Pantheon futuro
Del resto, più che da mala disposizione di Shelley, i suoi giudizi sul popolo italiano erano dettati da una ragione d’amore. L’Italia è così, perché schiava. I veneziani sono vittime delle orde austriache, da cui è oppresso questo miserabile popolo non più vivo, ma immerso in un sogno pieno d’angoscia e di oscuro terrore; in Roma la vita di trecento prigionieri in ceppi che estirpano le erbacce di Piazza San Pietro gli dà l’immagine del servaggio d’Italia. Venuto nel paradiso degli esuli e dei paria, esule e paria egli stesso, egli sapeva di incontrare dei fratelli di miseria e di esilio nei figli medesimi di questa terra e sentiva, in fondo al cuore, di amarli. Non appena il fremito della libertà, nel ’20, comincia a correre le contrade d’Europa e anche il mezzogiorno d’Italia ne è preso, egli, sperando vederlo comunicato alla sua lontana Inghilterra lo traduce nelle due odi solenni a Napoli e alla Libertà, suscitando nel canto le città italiche, belle e fiere come amazzoni, ciascuna con la grandezza sua: “Dalle isole tutto in su fino alla Alpi gelide, l’eterna Italia riscutesi. Il mare onde son lastricate le solitarie vie di Venezia ride di luce e musica. Genova fatta vedova, pallida, al lume di luna sillaba gli epitaffi dei propri antenati, mormorando: - Ov’è Doria? – La bella Milano nelle cui vene lungo tempo corse – paralizzante – il velen della vipera, alza il tallone per schiacciar la sua testo... Firenze, sotto il sole, delle città la più bella, ha il volto soffuso di porpora per la speranza della Libertà...” E’ l’avvento, per allora immaturo, della patria mostra, al cui nome il poeta canta così: “Ciò che il sorger del sole è per la notte, ciò che il vento del nord è per le nubi, come l’ardente foga con cui il terremoto, passando, fa rovinar montane solitudini – eterna Italia! – quelle tue speranze e quei timori tuoi siano per te!”.
* * *
Chiameremo noi col solo nome di ospite questo straniero che, giunto da poco fra noi si accampa con palpito così fraterno sulla soglia del nostro risorgimento? Nulla egli trascurò di quanto potesse introdurlo nel secreto dell’anima italica. Si avvolse inorridito negli anditi bui dei Piombi e di Sant’Anna, ove rivisse la passione del Tasso; si inebriò nelle tele del Correggio, di Raffaello, del Rosa; dalla Beatrice Cenci attribuita al Reni trasse ispirazione alla sua più profonda tragedia, che è la tragedia di una età e di una società italiana; non parve apprezzare degnamente nelle Sistina gli affreschi di Michelangelo che Camillo Boito definì “una tempesta del Bello”, ma sulla Medusa leonardesca scrisse versi di una potenza sinistra, simili ad altri suoi dai quali, per entro gli elisi eterei delle più delicate visioni, irrompono a tratti fasci di tenebre solcati dai lampi del Terrore e della Desolazione.
Nato anglo-sassone, possedette fin nelle sue grazie più occulte l’idioma d’Italia; penetrò a pieno nelle non facili intimità della poesia petrarchesca e ne svolse i Trionfi, innovandoli, sublimandoli in quel Trionfo della vita sulle cui vette egli salì per valicar nell’eterno. Avverso a ogni culto o dogma, ci insegnò una preghiera nuova, leggendo il Paradiso dantesco nella penombra del duomo di Milano; ripigliati i motivi del Convivio e della Vita Nuova, austeri di fredde astrattezze, pervasi di mistici sgomenti, irraggiati d’un riflesso un po’ pallido di ignote albe sideree, vi immise una più calda passione di vita, li rincolorò di tutte le tinte del creato, li rinutrì delle linfe dei sensi, perseguiti, blanditi, svolti l’uno dall’altro e l’uno all’altro intrecciati, dal colore al profumo al suono, in un processo continuante e cangevole, fin che essa, la parola, sembra venir meno sui cigli dell’infinito.
Certo lo spirito di Dante visitò per tempo il cuore di questo estatico aedo, che riconobbe la terra per salutarla dall’alto e in ogni donna vide un’Idea che lo congiungesse all’universo... “C’era un giovane – scrive egli stesso, in italiano – il quale viaggiava per paesi lontani, cercando per il mondo una donna, della quale esso fu innamorato”. Nessuna patria terrena ospitava la donna anelata da lui: ma, di tutte le contrade, questa a cui egli venne per morire era la più vicina al suo sogno.
Per morire, per rinascere.
Se un giorno Roma erigerà un Pantheon al ricordo dei grandi Figli adottivi che ci amplificarono l’Italia, Percy darà fra gli eletti. Il verso di Enotrio nostro esalterà nel marmo l’effige del titano virgineo e i maggi latini rinnoveranno un loro tributo di rose al poeta del mondo liberato e della Favola eterna...

                                                              Giovanni Bertacchi

”L’Italia nei ricordi dei grandi poeti stranieri, Percy Bisshe Shelley”
da La grande illustrazione d’Italia, settembre 1924


GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB: 6° capitolo. Un momént de nostalgia




                                                        Giovanni Bertacchi con il nipote, 1925


Il poeta scrisse poesie in dialetto in tarda età. Nel 1929 infatti aveva già sessanta anni. In questa data esce anche la sua ultima raccolta in lingua: “Il perenne domani”. Sembra quasi, a chi cura questo Libroweb, un solitario passaggio di testimone dentro l’animo del poeta chiavennasco, che stanco, deluso, isolato per il suo antifascismo, medita di aggrapparsi al dialetto per rinforzare ancor più la tenace resistenza alle camice nere e ai saluti romani preludio di ogni persecuzione. Le poesie dialettali di Bertacchi sono state raccolte - con grande intelligenza filogica e commentate nella loro genesi e sviluppo - da Guido Scaramellini e dunque a questo libro, più volte ristampato, si rimanda. L’ultima edizione contiene anche preziose foto: Giovanni Bertacchi, Poesie dialettali, Chiavenna 2001, Edizione Pro Chiavenna.
Nel Libroweb pubblichiamo “Un momént de nostalgía”, che è una delle più lette e ricordate in terra chiavennasca e lombarda. La poesia venne pubblicata sulla rivista Il torototèla nel 1° gennaio del 1933. Assieme, a comporre quasi un ideale trittico (e in futuro anche queste proporremo ), c’erano anche “Quarant’an de scöla” e “I mè visit d’invèrno”. La rivista ovviamente era minuscola, poco diffusa, ma dopo l’avvento del fascismo al poeta non rimanevano che riviste simili oppure legate, come Alba Serena, al mondo dei ciechi. Inutile qui rimarcare l’idiozia, storica e culturale, che prima della guerra scatenata da Hitler e Mussolini, in Italia si stesse tutto sommato dentro una società autoritaria e non totalitaria, che a volte leggiamo persino su giornali come Il Corriere della Sera. Basterebbe che tali esimi storici si rileggessero le testimonianze di Luigi Medici, amico intimo del Bertacchi, che del giornale milanese fu direttore, per provare quantomeno imbarazzo. Ma torniamo alla poesia dialettale che “racconta” un Natale da escluso, un Natale dove l’affidarsi a scaglie immaginarie della propria terra, non può che produrre nostalgia.
Bertacchi tocca tutte le corde del patetico sentimentale con una vena di romanticismo da ballata, un novellare da veglia e da vigilia in fronte al sacro della festività: c’è la trattoria, luogo per eccellenza di solitudine, dove cena pensando a Chiavenna, e per scaldare la pietanza non resta che ripensare alla fanciullezza. Fra i tanti squarci evocati, che danno anche dolore mediato dalla malinconia, prende forza la ricerca dell’adolescente Bertacchi, in Pratogiano, di muschio e di alloro per il Presepio. Con questa immagine di dedizione intenta ad addobbare l’evento fondamentale della cristianità - alla quale anche chi scrive, ad altre latitudini, quelle pisane, ha partecipato - concludo il mio breve commento a una poesia memorabile che genera in me il rimpianto di non saperla leggere come si deve; ma i lettori, che spero numerosi di questo capitolo del Libroweb, lo faranno sicuramente al meglio, e proprio la vigilia di Natale. Cds, il 24 dicembre 2005



Un momént de nostalgía

Quant Ciavena la se inòcia
sü, tra mèz ai sò montàgn,
cont quii sò gandón de ròcia
che stravaca in d’'i campàgn ;
quant da quest a quel paees
i se ciaman tüti i gees,

mi, úbandii de Lombardía
dal decrét del mè destín,
cerchi un pòst in tratoría,
cerchi l föoch d’un quai camín,
e stòo lí a guardà l pasaa
cont i öc imbambolaa

Çco; pròpi in 'sto momént
sum chi, dent in d' una stanza,
bèl al còlt, coi sentimént
tüt velaa de lontananza
Còsa gh'é 'l che viif o möor
in l' inverno del mè cöor ?

Föra 'l fiòca: in sül velari
che vegn gió sü tec e straat,
come in font a un gran scenari
se profila i mè valaat.
Forsi a ' st' ora, sü a Ciavena,
sonaràn per la novena.

O novena de Natàl,
tanto vegia e sempar növa,
paar che l cel de la mia val
a sentít al se comöva;
paar che pròpi l sia là sü
el preúepi de Geúü.

Caar preúepi, me regòrdi!
Coi compàgn, finii la scöla,
se coreva tüc d’acòrdi
sü per Prost e per Capiöla
a cercà, fra i èrboi mat,
òri, müfa e spungiaràt.

Pö in d’i stüf l era un defà
a tra insém la scena viva:
gh’era i pàscoi, gh’era i ca,
gh’era i sonadoo de piva,
e l Bambìn, che fa la nana
tra i du bèsti, in la capana.

Quanti ròp a nün bastrüch
me parlava in questa scena,
fada sora a quatar sciüch
lungo i dì de la novena!
Ghe sentivom al riciàm
de la feet di nòstar mam.

Na l vegniva pö l gran dì
che in quel quadar inocént
se vedeva a comparí
i trè Magi de l oriént,
i trii rè: Gaspar, Melchiòr,
Baldasàr, cont i teúòr.

In la nòc quii rè inscí bèi,
filànt via a vün a vün,
i portava süi camèi
un quaicòs anca per nün...
Nün a scüur, coi öc avèert,
trepignavom sot ai cuèert.
E l dí dòpo un carnevaa
tra tüc nün compàgn de giöoch:
magatèi, trombét, soldaa,
cont i eúempi arènt al föoch.
Fèsta granda, incoronada
d’una zena prelibada.

Ma, pö dòpo, che magón
tornà chiét sot ai lenzöo!
Piü vin. dolz, piü panéton,
tüt finii, i mè pòvar fiöo...
Domàn... scöla!Epifanía
tüti i fèst i a pòrta via!

GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB: 5° capitolo. Le Alpi




                                                                     Baita Segantini




LE ALPI

I verdi balzi e i pascoli ridenti,
reduce pellegrino, (1) ho riveduto;
ai ghiacci eterni, ai fiumi ed ai torrenti
ho ridato dal cuore il mio saluto.

Qui dov’io seggo schiudesi agli intenti
sguardi (2) il riso del ciel limpido e muto;
qui dov’io seggo il mio pensiero in lenti
desideri di pace erra perduto.

La catena dell’Alpi in ampio giro
variata di nevi e di pinete
in vallate profonde, ecco, s’adima (4) .

E vagabonda (5) d’una ad altra cima,
solca una nube l’immortal quiete
della nitida volta di zaffiro.


Le Alpi (dal Canzoniere delle Alpi, 1895 ). L’imponente visione del paesaggio alpino ispira a Giovanni Bertacchi, desideroso di solitudine e di pace, questo sonetto che ha i tratti della pensosa semplicità tanto cara al “sentire” post-romantico.
Metro: sonetto. Schema: ABAB, ABAB, CDE, EDC.

(1) Di ritorno da un lungo viaggio.
(2) Si mostra ai miei “sguardi intenti”, ammirati.
(3) ”Variata”: fatta varia: resa bella.
(4) “s’adima”: si abbassa.
(5) “E vagabonda”: e la volta celeste, azzurra e limpida come zaffiro, eternamente quieta, è solcata appena da una nuvola che vaga (vagabonda) di vetta in vetta.

GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB: 4° capitolo. Venezia







Il poeta chiavennasco si spostò molto in Italia e all’estero e la sua produzione diaristica come giornale da viaggio, attende una sistemazione che io spero e con questo LibroWeb di approntarla progressivamente. Intanto inserisco nel LibroWeb una poesia - non presente nelle raccolte e che compare in un taccuino senza data - dedicata a Venezia.

Il Bertacchi è capace di realizzare la sua ispirazione oggettivando l’immagine senza eccessive descrizioni proprio nelle poesie brevi. Era questa l’opinione di Francesco Flora che ne curò, non dimentichiamocelo, l’opera completa (anche se poi sono stati trovati altri inediti e alla parte poetica, secondo me, dovrebbe essere affiancata quella in prosa e aforistica) in una edizione ora introvabile curata nel lontano 1964.

Metro: due strofe di quartine di versi endecasillabi, con un’anomalia: il quarto verso, infatti, della prima quartina, è un settenario. Schema ABAB, CEEC.


VENEZIA

Oh dolce alla sognante anima, e mesto
dei marmorei palagi al limitare,
questo risucchio d’onde morte, questo
mare che vien dal mare.
Te la malia delle perdute istorie
penetra e cinge al par de’ suoi canali,
Città che desti al mondo anni fatali
né sai disfarti delle tue memorie!


vv 1-4, Oh dolce alla sognante anima...
Evocazione colma di empito musicale. Il poeta suggerisce delle onde che sono isolate dalla loro primaria fonte vitale che è il mare, dunque le onde veneziane hanno la valenza di essere morte o quantomeno diverse e senza madri. Il risucchio di tali onde al poeta è verosimilmente dolce ma anche inquietante mentre lambisce le fondamenta di marmo dei preziosi palazzi. Anch’essi stordenti nei loro perduti compiti verso chi lo aveva edificati e abitati al colmo della potenza marinara.
vv 5-8 Te la malia...
Hanno un incanto particolare gli eventi storici che si smarriscono nel flusso del tempo e che la città avvolgono, inconsumabili nei loro echi, come fanno i canali. In chiusura il poeta si rivolge a Venezia dicendole che per conservare, miracolisticamente quasi, le memorie ne porta anche il peso. Venezia infatti determinò la storia di buona parte del medioevo italiano affidandosi poi a una lunga ed estenuante decadenza in epoca moderna.


mercoledì 5 maggio 2010

GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB: 3° capitolo: Alti pascoli

 




Il Libroweb presenta una poesia tratta dal Canzoniere delle Alpi, come Alti pascoli, e la commenta con scelta manualistica e didascalica come appunto si conviene a un libro che sulla rete ambisce a coinvolgere studenti e scuole in un rinnovato studio di Giovanni Bertacchi. E’ questa un’esigenza molto sentita, unitamente a che siano messi in circolo i testi, anche meno conosciuti del poeta, perché finora ogni riedizione delle sue poesie, più o meno illustrate, non hanno mai avuto commenti e note. E per il lettore, ma anche per chi studia, questo apparato è assolutamente necessario. Alti pascoli (dal Canzoniere delle Alpi, Editore Baldini e Castoldi, Milano, 1895). Bertacchi in questa sua raccolta, la sua più famosa e diffusa, propone rarefatte scene alpestri e figure di pastori, alpigiani, viaggiatori, che della montagna hanno fatto il basamento della loro esistenza. In questa poesia il poeta traccia anche la sua idea di bellezza che germina nel potere risanatore della natura. Una natura genuina e insieme possente. Esserne avvolti evita al soggetto di essere fagocitato dal nulla. I versi sono anche un elogio della lentezza: delle mandrie e degli uomini che seguono i ritmi delle stagioni. Lentezza che coinvolge anche la parola nel suo intento di modellare le cose e gli eventi. Esplicito il richiamo alla ritualità che la vita collettiva assume attraverso il lavoro e la fatica. Il mito positivista ha toni d’intimità sacrale in Bertacchi. E su questo si rimanda all’antologia bertacchiana compresa in “Scritture celesti” (Tellus 24-25). L’uso del simbolo e la seduzione che riceve dal rito e da visioni panteistiche presenta un Bertacchi molto più complesso di quanto certe semplificatorie note biografiche sulla sua esistenza hanno diffuso fino ad oggi.

Metro: strofe di quattro versi, dei quali il primo e il terzo costituiti da doppio ottonario, e il secondo e il quarto da endecasillabi. Le rime sono incrociate: ABBA.


ALTI PASCOLI

Sul ciglio delle alture la greggia ondulata (1) appariva,
ed eretto sovr’essa alto il pastore;
grande così sul cielo, pareva il selvaggio signore
di non so qual vagante isola viva (2)

Sui cigli della storia (3) sempre così eguale s’affaccia
la greggia d’ogni età, d’ogni contrada:
sembra una stessa torma che vada nei secoli e vada,
seguendo una fedele unica traccia.

Oh, quando esse (4), annunciando le due ritornanti stagioni
salgono ai monti e tornano, tra i nimbi
degli odorosi velli le madri sospingono i bimbi,
quasi ad un rito che li renda buoni.

E che bontà (5) pacata quassù, dove i miti pascenti
traducon la pastura in bianche lane!
Come uno scampanio che giunga da sagre lontane,
suonano i bronzi de’ quieti armenti.

Per disciplina inconscia (6), serbata nei tempi e negli usi,
sfilan le mucche lentamente a sera,
e le accompagna in lunghe cadenze d’antica preghiera
quel tremolar di tintinnii diffusi.

La terra travagliata (7) che giù nell’aperta pianura
riferve al solleone e s’affatica;
su cui negli arsi piani (8) si curva e s’indugia l’antica
opera umana, al par d’una sventura,

quassù tutta si stende ne’ verdi ristori e produce
spontanee messi in fertili riposi,
e canta a salmi (9) d’acque pregando pe’ mai odorosi,
purificata nella tersa luce (10)

Qui fra la terra (11) e l’uomo non è che quest’opera viva
che si compie pascendo, al forte clima;
vicina ad esso e sempre ai primi elementi, alla prima
flora del suolo e all’acqua di sorgiva.

Poeta, hai tu saputo stancarti, salendo alle nevi (12)
e discendendo per le vie dirotte?
Poeta, è questo il premio: dormire sul fieno una notte
e risvegliarti nel mattin degli evi! (13)


(1) Ondulata: ondeggiante. - La greggia appare ondulata perché i dorsi delle pecore offrono sinuosità allo sguardo e ritmato movimento.
(2) Quest’ isola viva non è che la distesa mobile costituita dalla massa compatta delle pecore che si muovono tutte insieme.
(3) Sui cigli della storia: in ogni epoca del passato (sui cigli della storia) le greggi si sono spostate con movimento identico a quello di oggi; sembra quasi che una sola torma, sempre la stessa, percorra da millenni le medesime vie del mondo.
(4) Oh, quando esse: quando il gregge nell’autunno scende al piano e in primavera ritorna ai monti (le due ritornanti stagioni), le mamme sospingono i bambini in mezzo ai riccioli delle pecore lanose (tra i nimbi degli odorosi velli) come per un rito, perché sperano che quel contatto li renda migliori. (5) E che bontà: e che tranquilla pace (bontà) quassù fra i monti, dove i miti animali che pascolano (i miti pascenti) trasformano le erbe in bianche lane! - L’erba infatti nutre la pecora e le consente di rinnovare continuamente il suo mantello di lana. Sagre: feste.
(6) Inconscia: inconsapevole; istintiva. e le accompagna con un ritmo somigliante a quello di antiche preghiere. Quel tremolar: quel suono tremolante delle campanelle che di lontano (tintinnii diffusi)
(7) La terra travagliata: la terra esausta che giù nella pianura ribolle al sole e continua nella sua dura fatica (e s’affatica).
(8) Su cui negli arsi piani: sulla quale l’immutabile lavoro umano si curva e si dedica attorno alle zolle arse dal sole come per una sventura voluta da Dio (al par d’una sventura); questa stessa terra quassù sui monti tutta si apre alla gioia del verde (ne’ verdi ristori).
(9) E canta a salmi: e innalza canti con la voce delle sue acque (salmi d’acque) invocando da Dio profumate fioriture. Maio significa maggio; e mai, in senso traslato, può indicare i prodotti del mese di maggio. Soggetto di canta è sempre la terra di cui al verso 21
(10) Purificata nella tersa luce: la terra di montagna viene purificata dalla limpida luce.
(11) Qui fra la terra: qui sulla montagna fra l’uomo e la terra non c’è che il lavoro del gregge, che si compie pascolando, all’aria possente e pura delle grandi altezze; lavoro che si svolge accanto all’uomo (ad esso) e sempre vicino agli elementi più semplici della natura (ai primi elementi) quali la vegetazione spontanea del suolo e l’acqua delle sorgenti (sorgiva).
(12) Salendo alle nevi: salendo in alto. - vie dirotte: sentieri scoscesi.
(13) Il premio di chi ascende le alte vette è questo: dormire una notte sul fieno di un ricovero alpino e svegliarsi all’alba in mezzo a una natura che è rimasta eguale a quella del momento della sua creazione.