Guido Scaramellini
LA RIBELLIONE MITE DEL POETA
GIOVANNI BERTACCHI
Mite, ma tutt’altro che remissivo
fu il poeta Giovanni Bertacchi, che non si tirò mai indietro per opportunismo
né mutò bandiera, pagando invece di persona in tempi in cui le differenze di
opinione potevano costare addirittura il carcere. Fu, a suo modo, un ribelle e
perciò ostacolato, come dice l’oblio che regna ancora su di lui e sulla sua
opera a più di sessant’anni dalla morte, nonostante le lodevoli iniziative
promosse a Chiavenna per ricordarne la figura e per invogliare a leggerne le
opere. A partire dalla tomba e dalla lapide sulla sua casa natale che la sua
città volle per lui nel 1945, terzo anniversario della morte, per passare alla
lapide posta nel ‘52 sulla scuola media a lui intitolata, a cui seguirono una
decina di anni dopo il busto in bronzo collocato in piazza Castello e nel 1992,
cinquantesimo della morte, il convegno di studio.
Bertacchi si affacciò
all’editoria nel 1888, appena finiti gli studi liceali al collegio Gallio di
Como, pubblicando presso la tipografia Ogna di Chiavenna un volumetto dal
titolo “Versi” sotto lo pseudonimo di Ovidius. Laureatosi quattro anni dopo
all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, si fece conoscere al grande
pubblico nel 1895 con l’uscita del “Canzoniere delle Alpi”, presso Baldini
& Castoldi di Milano. Delle sei raccolte che seguiranno, questa è la più
nota per successo di critica e soprattutto di pubblico: arrivò al 25° migliaio
di copie.
Il 1898, l’anno in cui cadeva il
cinquantenario delle Cinque giornate di Milano, la gente scese in strada,
questa volta non per scacciare gli occupanti austriaci, ma per protestare
contro il carovita. Fu allora che il generale Fiorenzo Bava-Beccaris ordinò ai
suoi artiglieri di rivolgere i cannoni contro i dimostranti: un centinaio, o
forse più, furono i morti e oltre seicento i feriti. Molti intellettuali furono
incarcerati. In quel frangente Bertacchi non esitò a lasciare l’insegnamento al
ginnasio-liceo Parini, espatriando in volontario esilio nella vicina val
Bregaglia svizzera, probabilmente anche perché temeva di essere arrestato per
certi articoli precedentemente pubblicati. Fu a Soglio e a Promontogno, e in
terra repubblicana lesse quanto trovò di Mazzini. Rientrato a Milano e ripreso
l’insegnamento, fu chiamato nel 1915 alla cattedra di letteratura italiana
presso l’università di Padova “per chiara fama di poeta”, senza concorso.
Formatosi alla filosofia
positivista e agli ideali socialisti libertari, ma legato anche alla tradizione
mazziniana, fu coerente socialista umanitario, vicino al riformismo di Filippo
Turati: un socialismo romantico, volto a mediare tra diverse ideologie, a
smussare i contrasti e a favorire la fratellanza universale e la solidarietà
fra i popoli, contro ogni dittatura. Per questo ferma e intransigente fu la sua
opposizione al fascismo, come risulta dagli atteggiamenti pubblici, ma anche
dalle carte private del suo archivio, oggi depositato nel Fondo che porta il
suo nome al Centro di studi storici valchiavennaschi. E il regime andò sempre
più isolando il poeta; di conseguenza la sua fama, che a cavallo tra i due
secoli era stata grandissima in Italia, si andò progressivamente affievolendo.
Non amò azioni plateali, ma – da
buon montanaro – agì con ferma quotidiana coerenza, senza proteste eclatanti. A
confermare la ferma avversità al fascismo, che data ai primi anni del regime,
rimane la sua corrispondenza conservata nel Fondo Bertacchi. Nel 1924 il poeta
aderì alla lista lombarda di opposizione costituzionale e Dante Coda de “La
Stampa” di Torino si complimentò per il “suo gesto di coraggiosa rivendicazione
dei principi di libertà e di giustizia”.
Per motivi politici si vide
talora rifiutare la pubblicazione di sue opere, come il 25 novembre 1927,
quando la Sonzogno gli comunicava di dover rinunciare alla stampa del suo
discorso perché esso – si legge – “dovrà necessariamente andare fra le mani di
podestà, di presidenti di circoli, di segretari fascisti, ecc. e non potrà
trascurare, in certi casi, l’attuale situazione politica italiana”.
Da una parte venivano rifiutati
suoi testi, dall’altra venivano richiesti. Bisogna ricordare che nel 1906
Bertacchi aveva inserito nella raccolta Alle sorgenti la poesia
“Balilla”, ispirata al monumento di Genova, in cui rivive le gesta del ragazzo
il quale, scagliando una pietra contro un gendarme austriaco, aveva acceso le
cinque giornate che portarono alla liberazione della Liguria. Costituita dal
regime, giusti vent’anni dopo, l’Opera nazionale Balilla per l’assistenza e
l’educazione dei giovani tra gli 8 e i 14 anni, cominciarono ad arrivare al
poeta richieste di pubblicazione della poesia. In una, del 25 luglio 1930,
l’Editrice sociale Treviglio di Milano chiedeva l’autorizzazione a pubblicare
tre sue liriche in un’antologia per i corsi di avviamento al lavoro; accanto a
“Balilla” il poeta annotò: “No. Risposto 4.11.30”. Analogo rifiuto, per evitare
che la sua composizione fosse usata come mezzo di propaganda fascista, egli
oppose alla Paravia di Torino, che il 22 gennaio 1936 chiedeva di inserire la
stessa poesia in una Antologia italiana a cura di Gina Algrandi di Napoli.
Bertacchi fu anche chiamato a
comparire davanti ai responsabili del partito nazionale fascista per render
conto del suo operato. Il 21 settembre 1934 fu convocato dal segretario
federale di Sondrio, probabilmente in relazione “a un convegno per la questione
del Dopolavoro che tendeva ad assorbire la Società operaia” di Chiavenna, come
il poeta annota in calce alla lettera di convocazione. Durante quel ritrovo,
svoltosi la sera del 29 gennaio precedente nel crotto Perego in Pratogiano, il
poeta aveva dichiarato, ottenendo l’adesione dei sei amici presenti, che, se la
libera Società democratica operaia fondata a Chiavenna nel 1862, fosse stata
trasformata dal regime in dopolavoro, egli non si sarebbe più considerato socio
onorario della stessa. Ancora una volta i crotti diventano luogo ideale per
riunioni libertarie, come di nuovo saranno nel ‘44, quando sempre nei pressi di
Pratogiano, in quello alla “Crosét” donato dai chiavennaschi vent’anni prima al
loro poeta, sarà costituita la sezione del Comitato di liberazione nazionale.
E siamo al giuramento di fedeltà
imposto dal fascismo ai docenti universitari con decreto 1227 del 28 agosto
1931, reso esecutivo l’8 ottobre seguente. Solo una dozzina di professori in
tutta Italia si rifiutò, altri due scelsero la via della pensione anticipata e
uno conservò il posto, pur senza giuramento. Bertacchi ebbe nell’occasione due
colloqui separati con il preside di facoltà e con il rettore, che gli avevano
fatto sperare – come scrive in una lettera dell’1 dicembre seguente – in “un
trattamento più equo verso i non giuranti. Se non che, chiamato da questo [il
rettore] la sera di sabato 28 novembre, sbrigativamente fui indotto a giurare;
il che feci più con mortificazione che con la convinzione di essere moralmente
impegnato da una così coatta dichiarazione. Nell’atto anzi di firmare, dissi di
ritenere nullo lo stesso, di esserci stato tratto ‘per il collo’ e di essere
già da quel momento deliberato a provvedere altrimenti alla mia dignità”. Il
tutto alla presenza del rettore Giannino Ferrari, del direttore della
segreteria dott. Violani e dell’economo dott. Giacomo Livan. E, dichiarando
l’intenzione di lasciare l’insegnamento entro un anno, così conclude: “Le
ragioni più mie e delicate esposte al Rettore nel colloquio di sabato 21
novembre ho riassunte oggi in lettera raccomandata a S. E. il Ministro Balbino
Giuliano”.
A quanto finora detto si aggiunge
una testimonianza nel libro “Chi ha paura del lupo cattivo?” di Cesare Musatti,
allievo prima, collega poi del poeta come docente di psicologia a Padova: “in
grande ambascia per il richiesto giuramento – scrive Musatti – fu Giovanni
Bertacchi, che venne da [Concetto] Marchesi a confidarsi. Non poteva rinunciare
allo stipendio perché ne aveva bisogno per mantenere i propri nipoti, e non
sapeva che cosa fare. Credette di poter risolvere il problema, giurando sì, ma
rilasciando contemporaneamente ad un notaio una dichiarazione da rendersi
pubblica alla sua morte, in cui si diceva che aveva giurato solo per fame e non
per convinzione. Marchesi rideva e gli chiedeva: ‘Ma scusami, quando sei morto,
che te ne importa?’. Marchesi aveva ragione, ma … l’uomo alla propria morte non
crede, e sempre agisce e scrive per l’eternità”. Musatti dimenticò o forse non
conosceva il “Precetto”, scritto da Bertacchi nel 1912: “Il carro oltre passò
d’erbe ripieno / e ancor ne odora la silvestre via. / Sappi fare anche tu come
quel fieno: / lascia buone memorie, anima mia!”. Diversamente motivarono la
loro sottomissione al regime sia lo stesso Musatti (che pure sarà in seguito
allontanato dall’insegnamento per motivi politici e razziali), sia Marchesi, i
quali – come confessa il primo – si allinearono alle direttive del partito
comunista.
Quando, nel 1936, fu richiesto ai
docenti universitari di rinnovare il giuramento al regime, il nostro non ebbe
esitazioni, scegliendo il pensionamento anticipato. Lo comunicò in una nobile
lettera al rettore Aldo Ferrabino. Dopo aver pagato la fedeltà alle sue idee
antifasciste con quindici anni di quasi totale assenza dalla ribalta letteraria
nazionale, anche se indubbiamente acuita dalle mutate poetiche, Bertacchi
troncava anzitempo la sua carriera accademica, riducendosi ad elemosinare
ospitalità per i suoi scritti – a titolo gratuito, s’intende – su un paio di
riviste benefiche di Milano: una per i sordomuti, l’altra per i ciechi, “che –
osserva Attilio Pandini – appaiono oggi come la metafora dell’Italia di quegli
anni imbavagliati e oscuri”.
Né potrà vedere – Bertacchi – la
caduta della dittatura, essendo morto sul finire del 1942 a 73 anni, dopo un
tracollo fisico e psichico a cui non fu estranea la condizione di esiliato in
patria. Solo dopo la Liberazione le sue spoglie avranno degna e solenne
sepoltura sotto la rupe nel cimitero di Chiavenna, dove un sarcofago in cotto,
oggi in bronzo, reca i temi più cari alla sua poetica, dalla vita dei pastori a
quella degli emigranti. E voglio sperare che trovino finalmente attuazione gli
auspici dettati nel 1935 in Novecento dal critico Alfredo Galletti:
“penso che la voce poetica dei suoi sogni sarà ascoltata ancora con raccolta commozione
quando l’eco di tante altre voci più stridenti sarà svanita”.
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