martedì 3 febbraio 2015

"Buon compleanno Giovanni Bertacchi" - Giornata dedicata il 9 febbraio 2015 a Giovanni Bertacchi per il 145° della sua nascita. A cura del "Leonardo da Vinci di Chiavenna"






BUON COMPLEANNO GIOVANNI BERTACCHI!


INSEGNARE GIOVANNI BERTACCHI-PROGETTO DI MANUALE è un’attività didattica presente da tempo al “Leonardo da Vinci” di Chiavenna ma quest’anno scolastico, 2014-2015, si esplica e declina in un modo assolutamente nuovo. Intanto perché stavolta il progetto, che ha il sostegno e patrocinio della PRO-VALTELLINA,  riguarda tutte le classi quinte dell’istituto, dove ogni insegnante svilupperà delle unità didattiche dedicate al poeta e poi perché ci sarà una “Giornata Bertacchiana”, il 9 febbraio 2015, 145° della nascita del poeta, che titolata (su suggerimento del preside Salvatore La vecchia)  “Buon compleanno prof. Bertacchi” vedrà al mattino in Aula Magna i docenti confrontarsi sull’autore chiavennasco con i propri studenti e successivamente raggiungere i luoghi bertacchiani, (casa natìa, Crotti di Pratogiano, tomba del poeta) dove i giovani leggeranno poesie emblematiche studiate in classe.
A sera, alle ore 20,00, sempre nell’aula magna dell’istituto, ci sarà un incontro pubblico, aperto alla cittadinanza e agli studenti, frequentanti e diplomati, dove Salvatore la Vecchia illustrerà le intenzioni dell’ITCG-LICEO “Leonardo da Vinci” verso la cultura locale e la figura di Giovanni Bertacchi; Claudio Di Scalzo racconterà la necessità del contributo della scuola, in collaborazione con enti ed attività economiche, per creare un “parco letterario dedicato a Bertacchi” (ricordando indicazioni già espresse su La Provincia/L’Ordine della domenica), per fondare una didattica manualistica,  un vero  e proprio manuale, interno all’istituto, che tramite il web, sia disponibile anche per altri istituti valtellinesi e lombardi; a concludere la serata, dopo un intermezzo di letture poetiche studentesche, il contributo di Guido Scaramellini, che è uno dei maggiori conoscitori di Bertacchi, della sua biografia, della sua produzione in dialetto, e di ogni aspetto storico culturale che lega, in modo indissolubile, chi scrisse il “Canzoniere delle Alpi”  alla città di Chiavenna.






OBIETTIVI GENERALI DEL “PROGETTO BERTACCHI” 
IN ATTO AL “LEONARDO DA VINCI” – 2014/2015

-Conoscere la geografia letteraria  nell’opera di Giovanni Bertacchi organizzando un manuale scolastico a lui dedicato e nel contempo promuovere assieme ad enti e associazioni un parco letterario bertacchiano;
-Sviluppare interpretazioni e conoscenze sulla condizione storica novecentesca ed attuale della cultura alpina di cui Giovanni Bertacchi fu un esponente;
-Nel dialogo Scuola-Comunità-Enti fornire elementi per la diffusione dell’opera di Giovanni Bertacchi in Valtellina-Valchiavenna con il fine di dedicargli un “parco letterario” per i residenti e per i turisti sviluppando di concerto iniziative scolastiche atte a intrecciarsi con attività imprenditoriali e di commercio  e turistiche.




lunedì 2 febbraio 2015

GIOVANNI BERTACCHI LIBRO-WEB 16: "Leopardiana" da "A fior di silenzio". A cura di Claudio Di Scalzo


Fanny Targioni Tozzetti




LIBRO-WEB 16
(a cura di Claudio Di Scalzo)
 
LEOPARDIANA

da "A FIOR DI SILENZIO"

Traversando in corriera l'Appennino,
per il passo della Futa, da Bologna a Firenze.
Passano in questi versi Maria Belardinelli 
che sembra adombrata nella Nerina delle "Ricordanze"; 
Teresa Carniani Malvezzi, amata dal Leopardi in Bologna; 
e Fanny Targioni Tozzetti amata in Firenze
e figurata dal poeta in aspasia.  


Egli passò di qui. Giunto non era
pei varchi ancora il fumido convoglio,
che avvolgesse il suo canto e il suo cordoglio
in rombo di bufera;
ma, senza tregua, nell'affievolito
occhio il riflesso della strada bianca,
e gravi su la vinta anima stanca
il tedio e l'infinito.

Egli passò di qui. Nelle aduggiate
soste cenò col suo deserto cuore,
pallido astemio, fra il giocondo ardore
delle ilari brigate:
durò le pazienti ore uniformi;
e, brividendo, s'avvolgeva ne' panni
l'esile petto, gravido d'affanni
e di poemi informi.

Andava: e dietro a lui la disamata
casa dei padri; i cheti orti, i sentieri,
le campane de' sabati, i misteri
dell'alta ombra stellata:
ma su le fioche labbra una divina
sommessa voce che dal cuore salìa,
una parola, un alito: maria!
Dolce Maria Nerina!

Tornava: e dietro a lui l'ampio e fecondo
suolo d'Emilia, un'ultima perduta
fede di vita e nel pensier cresciuta
la vanità del mondo:
ma sulle fioche labbra una parola
simile a un cruccio di speranza offesa:
un'esil voce, un alito: Teresa!
Lusinga ultima e sola!

Stanco intanto di vividi barbagli
nella pupilla gli morìa lo sguardo;
morìa sul ritmo sonnolento e tardo
dei penduli sonagli,
fin che, velato il dì, gli occhi sedotti
s'aprian vagando per gli aerei seni,
com'ei solca nei limpidi sereni
delle sue patrie notti.

Or tu per l'Appennino, ecco, viaggi,
o notturno poeta: esala i nomi
dolci e richiama i vagabondi aromi
de' tuoi perduti maggi.
Prosegui: la tua pace anche è lontana,
un altro nome, ma non qui, dirai,
pungendoti le mani entro i rosai
della Gentil Toscana.

Fanny, Fanny! - Deh, cancellar dai sensi
quel profumo di colpa e di promessa;
quella bocca profferta e non concessa,
e i moti, e i sogni immensi!
Aspasia! Aspasia! - Oh, superar la sorte,
negare il Tutto e, sul dirupo estremo
della rinuncia, coglier te, supremo
fior dell'amore, o morte!

Ma, prima della morte, un monte nero
incoronato di perpetua fiamma,
che in sé traduca il diuturno dramma
del tuo brullo pensiero:
il nero monte e te, cuore che alterni
sui ribollenti baratri iracondi,
tutto il sospetto gravitar dei mondi,
i tuoi problemi eterni.

Là poserai per sempre il tuo poema
si compie là: l'insonne tuo tormento
riconfuso ne andrà con l'elemento
di che la terra trema.
Che attender più? Dischiusa la finestra,
troverai la fragranza in cui morire;
e rivivrai per entro l'avvenire
col fior della ginestra.

Loiano, Firenze, nascendo il settembre 1909





Claudio Di Scalzo: Segantini e i primi dell’anno in Engadina (con Giovanni Bertacchi di passaggio)







Claudio Di Scalzo

SEGANTINI E I PRIMI DELL’ANNO IN ENGADINA
(con Giovanni Bertacchi di passaggio)

Breve biografia di Giovanni Segantini, pittore inesausto della montagna e uomo che muore sul crinale di un atteso Novecento. Nacque ad Arco, nel 1858, minuscolo paese vicino a Trento, che descritto nel Diario diventa quasi una variante melodica della sua infanzia divisa fra la guardia ai porci e alcuni giochi al limite dell’avventuroso tormento. Abbandonato dal padre partito per terre lontane ne segue, o meglio ne calca, il destino andando ramingo per la Svizzera e per la Francia. Mendicante senza risorsa alcuna né sostentamento viene rinchiuso “per miseria” il 9 dicembre 1870 nella Casa di Patronato per ragazzi abbandonati, in Milano, e convinto a imparare il mestiere di ciabattino. Esce nel 1873. Per misteriosa alchimia che spinge spesso a inusitate metamorfosi chi subisce il reale attraverso la sofferenza senza dimenticarne gli incanti, diventa pittore iscrivendosi all’Accademia Milanese di Belle Arti. Risente dell’influsso di Tranquillo Cremona ma ben presto adotta, in una scommessa lacerante con se stesso, il principio della divisione dei colori inventata da Seurat. La sua originalità si manifesta già con i quadri “Ave Maria” (1883) e La Tosatura del 1884. Lascia Milano. La città gli sembra una fabbrica di agonie. Soggiorna in varie località della Brianza come Pusiano e la rappresentazione della natura assume un tono imtimistico e sovente lirico. La svolta avviene trasferendosi a Savognino. Prima aveva tentato di portare il suo atelier a Livigno ma i paesani lo cacciano in malo modo intimiditi dalla sua lunga barba. Nel 1894 si sposta sul Maloja vicino al lago di Sils. 







Qui riceve la visita del poeta Giovanni Bertacchi. Spesso il pittore recita al figlio che gli fa da aiutante il Canzoniere delle Alpi del segaligno amico chiavennasco. La sua pittura diventa allegorica con un che di lustrale e segue la tecnica di disporre lunghe striature di colore puro in modo che una fusione, quasi un miracolo dice, avvenga nella retina dell’osservatore. Cerca la luce nel colore e sicuramente la dimensione del divino nel calendario terrestre che coinvolge uomini e animali. La sua ultima opera, preparata per l’Esposizione Universale di Parigi, da tenersi nel 1900, il Trittico della Natura, rimane incompiuto. Muore di peritonite sopra Pontresina, sullo Shafberg, a 2700 metri di altezza, il 28 settembre 1899. A portarlo a valle sarà una slitta trainata da un cavallo. Nel dipinto del Trittico, dedicato a La Morte, compare un cavallo attaccato a una slitta in attesa della bara. Se il pittore dipinse lo scenario per la sua fine la nuvola che compare sopra la salma sembra un fiducioso saluto rivolto all’eternità.







1 gennaio 1889, Savognino

Mattino. Il primo giorno dell’anno è, dunque, oggi; credo che quest’anno porterà un gran cambiamento nella mia vita artistica; speriamo sia in bene. Aprendo la finestra il sole entrò involgendomi nella sua calda luce dorata, e tutto m’abbracciò; socchiusi gli occhi inebriato dal suo bacio di vita, e sentii che la vita è pur bella, e mi discese nel cuore la gioventù e la speranza dei miei vent’anni. Il cielo è azzurro e profondo, la vallata è inondata dal sole, i campi dia vena tagliata luccicano al sole come pagliuzze d’oro; c’è nell’aria qualche cosa di festante. Pensare che ci troviamo a 1200 metri sopra il livello del mare!
Il godimento della vita sta nel saper amare; nel fondo d’ogni opera buona c’è l’amore.

1 gennaio 1890, Savognino

Mattino. Torno da una passeggiata. Sento nel cuore la mia calma abituale e nel cervello come uno sbalordimento che è effetto del vento. Intorno, tutto è triste, il cielo è grigio, sporco e basso, soffia un vento di levante che geme come lontana bestia che muore, la neve si stende pesante e malinconica come lenzuolo che copra la morte, i corvi stanno tutti vicino alle case, tutto è fango, la neve sgela. questa giornata me ne ricorda molte altre che passai nella mia fanciullezza; mi sento ancora l’eguale e provo le eguali sensazioni.

(Dal “Diario” di Giovanni Segantini)






Guido Scaramellini La ribellione mite del poeta Giovanni Bertacchi. Biografia, pubblicazioni, insegnamento, antifascismo.






Guido Scaramellini

LA RIBELLIONE MITE DEL POETA GIOVANNI BERTACCHI

Mite, ma tutt’altro che remissivo fu il poeta Giovanni Bertacchi, che non si tirò mai indietro per opportunismo né mutò bandiera, pagando invece di persona in tempi in cui le differenze di opinione potevano costare addirittura il carcere. Fu, a suo modo, un ribelle e perciò ostacolato, come dice l’oblio che regna ancora su di lui e sulla sua opera a più di sessant’anni dalla morte, nonostante le lodevoli iniziative promosse a Chiavenna per ricordarne la figura e per invogliare a leggerne le opere. A partire dalla tomba e dalla lapide sulla sua casa natale che la sua città volle per lui nel 1945, terzo anniversario della morte, per passare alla lapide posta nel ‘52 sulla scuola media a lui intitolata, a cui seguirono una decina di anni dopo il busto in bronzo collocato in piazza Castello e nel 1992, cinquantesimo della morte, il convegno di studio.
  
Bertacchi si affacciò all’editoria nel 1888, appena finiti gli studi liceali al collegio Gallio di Como, pubblicando presso la tipografia Ogna di Chiavenna un volumetto dal titolo “Versi” sotto lo pseudonimo di Ovidius. Laureatosi quattro anni dopo all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, si fece conoscere al grande pubblico nel 1895 con l’uscita del “Canzoniere delle Alpi”, presso Baldini & Castoldi di Milano. Delle sei raccolte che seguiranno, questa è la più nota per successo di critica e soprattutto di pubblico: arrivò al 25° migliaio di copie.
   
Il 1898, l’anno in cui cadeva il cinquantenario delle Cinque giornate di Milano, la gente scese in strada, questa volta non per scacciare gli occupanti austriaci, ma per protestare contro il carovita. Fu allora che il generale Fiorenzo Bava-Beccaris ordinò ai suoi artiglieri di rivolgere i cannoni contro i dimostranti: un centinaio, o forse più, furono i morti e oltre seicento i feriti. Molti intellettuali furono incarcerati. In quel frangente Bertacchi non esitò a lasciare l’insegnamento al ginnasio-liceo Parini, espatriando in volontario esilio nella vicina val Bregaglia svizzera, probabilmente anche perché temeva di essere arrestato per certi articoli precedentemente pubblicati. Fu a Soglio e a Promontogno, e in terra repubblicana lesse quanto trovò di Mazzini. Rientrato a Milano e ripreso l’insegnamento, fu chiamato nel 1915 alla cattedra di letteratura italiana presso l’università di Padova “per chiara fama di poeta”, senza concorso.
   
Formatosi alla filosofia positivista e agli ideali socialisti libertari, ma legato anche alla tradizione mazziniana, fu coerente socialista umanitario, vicino al riformismo di Filippo Turati: un socialismo romantico, volto a mediare tra diverse ideologie, a smussare i contrasti e a favorire la fratellanza universale e la solidarietà fra i popoli, contro ogni dittatura. Per questo ferma e intransigente fu la sua opposizione al fascismo, come risulta dagli atteggiamenti pubblici, ma anche dalle carte private del suo archivio, oggi depositato nel Fondo che porta il suo nome al Centro di studi storici valchiavennaschi. E il regime andò sempre più isolando il poeta; di conseguenza la sua fama, che a cavallo tra i due secoli era stata grandissima in Italia, si andò progressivamente affievolendo.
  
Non amò azioni plateali, ma – da buon montanaro – agì con ferma quotidiana coerenza, senza proteste eclatanti. A confermare la ferma avversità al fascismo, che data ai primi anni del regime, rimane la sua corrispondenza conservata nel Fondo Bertacchi. Nel 1924 il poeta aderì alla lista lombarda di opposizione costituzionale e Dante Coda de “La Stampa” di Torino si complimentò per il “suo gesto di coraggiosa rivendicazione dei principi di libertà e di giustizia”.
Per motivi politici si vide talora rifiutare la pubblicazione di sue opere, come il 25 novembre 1927, quando la Sonzogno gli comunicava di dover rinunciare alla stampa del suo discorso perché esso – si legge – “dovrà necessariamente andare fra le mani di podestà, di presidenti di circoli, di segretari fascisti, ecc. e non potrà trascurare, in certi casi, l’attuale situazione politica italiana”.
Da una parte venivano rifiutati suoi testi, dall’altra venivano richiesti. Bisogna ricordare che nel 1906 Bertacchi aveva inserito nella raccolta Alle sorgenti la poesia “Balilla”, ispirata al monumento di Genova, in cui rivive le gesta del ragazzo il quale, scagliando una pietra contro un gendarme austriaco, aveva acceso le cinque giornate che portarono alla liberazione della Liguria. Costituita dal regime, giusti vent’anni dopo, l’Opera nazionale Balilla per l’assistenza e l’educazione dei giovani tra gli 8 e i 14 anni, cominciarono ad arrivare al poeta richieste di pubblicazione della poesia. In una, del 25 luglio 1930, l’Editrice sociale Treviglio di Milano chiedeva l’autorizzazione a pubblicare tre sue liriche in un’antologia per i corsi di avviamento al lavoro; accanto a “Balilla” il poeta annotò: “No. Risposto 4.11.30”. Analogo rifiuto, per evitare che la sua composizione fosse usata come mezzo di propaganda fascista, egli oppose alla Paravia di Torino, che il 22 gennaio 1936 chiedeva di inserire la stessa poesia in una Antologia italiana a cura di Gina Algrandi di Napoli.
   
Bertacchi fu anche chiamato a comparire davanti ai responsabili del partito nazionale fascista per render conto del suo operato. Il 21 settembre 1934 fu convocato dal segretario federale di Sondrio, probabilmente in relazione “a un convegno per la questione del Dopolavoro che tendeva ad assorbire la Società operaia” di Chiavenna, come il poeta annota in calce alla lettera di convocazione. Durante quel ritrovo, svoltosi la sera del 29 gennaio precedente nel crotto Perego in Pratogiano, il poeta aveva dichiarato, ottenendo l’adesione dei sei amici presenti, che, se la libera Società democratica operaia fondata a Chiavenna nel 1862, fosse stata trasformata dal regime in dopolavoro, egli non si sarebbe più considerato socio onorario della stessa. Ancora una volta i crotti diventano luogo ideale per riunioni libertarie, come di nuovo saranno nel ‘44, quando sempre nei pressi di Pratogiano, in quello alla “Crosét” donato dai chiavennaschi vent’anni prima al loro poeta, sarà costituita la sezione del Comitato di liberazione nazionale.
   
E siamo al giuramento di fedeltà imposto dal fascismo ai docenti universitari con decreto 1227 del 28 agosto 1931, reso esecutivo l’8 ottobre seguente. Solo una dozzina di professori in tutta Italia si rifiutò, altri due scelsero la via della pensione anticipata e uno conservò il posto, pur senza giuramento. Bertacchi ebbe nell’occasione due colloqui separati con il preside di facoltà e con il rettore, che gli avevano fatto sperare – come scrive in una lettera dell’1 dicembre seguente – in “un trattamento più equo verso i non giuranti. Se non che, chiamato da questo [il rettore] la sera di sabato 28 novembre, sbrigativamente fui indotto a giurare; il che feci più con mortificazione che con la convinzione di essere moralmente impegnato da una così coatta dichiarazione. Nell’atto anzi di firmare, dissi di ritenere nullo lo stesso, di esserci stato tratto ‘per il collo’ e di essere già da quel momento deliberato a provvedere altrimenti alla mia dignità”. Il tutto alla presenza del rettore Giannino Ferrari, del direttore della segreteria dott. Violani e dell’economo dott. Giacomo Livan. E, dichiarando l’intenzione di lasciare l’insegnamento entro un anno, così conclude: “Le ragioni più mie e delicate esposte al Rettore nel colloquio di sabato 21 novembre ho riassunte oggi in lettera raccomandata a S. E. il Ministro Balbino Giuliano”.
  
A quanto finora detto si aggiunge una testimonianza nel libro “Chi ha paura del lupo cattivo?” di Cesare Musatti, allievo prima, collega poi del poeta come docente di psicologia a Padova: “in grande ambascia per il richiesto giuramento – scrive Musatti – fu Giovanni Bertacchi, che venne da [Concetto] Marchesi a confidarsi. Non poteva rinunciare allo stipendio perché ne aveva bisogno per mantenere i propri nipoti, e non sapeva che cosa fare. Credette di poter risolvere il problema, giurando sì, ma rilasciando contemporaneamente ad un notaio una dichiarazione da rendersi pubblica alla sua morte, in cui si diceva che aveva giurato solo per fame e non per convinzione. Marchesi rideva e gli chiedeva: ‘Ma scusami, quando sei morto, che te ne importa?’. Marchesi aveva ragione, ma … l’uomo alla propria morte non crede, e sempre agisce e scrive per l’eternità”. Musatti dimenticò o forse non conosceva il “Precetto”, scritto da Bertacchi nel 1912: “Il carro oltre passò d’erbe ripieno / e ancor ne odora la silvestre via. / Sappi fare anche tu come quel fieno: / lascia buone memorie, anima mia!”. Diversamente motivarono la loro sottomissione al regime sia lo stesso Musatti (che pure sarà in seguito allontanato dall’insegnamento per motivi politici e razziali), sia Marchesi, i quali – come confessa il primo – si allinearono alle direttive del partito comunista.
Quando, nel 1936, fu richiesto ai docenti universitari di rinnovare il giuramento al regime, il nostro non ebbe esitazioni, scegliendo il pensionamento anticipato. Lo comunicò in una nobile lettera al rettore Aldo Ferrabino. Dopo aver pagato la fedeltà alle sue idee antifasciste con quindici anni di quasi totale assenza dalla ribalta letteraria nazionale, anche se indubbiamente acuita dalle mutate poetiche, Bertacchi troncava anzitempo la sua carriera accademica, riducendosi ad elemosinare ospitalità per i suoi scritti – a titolo gratuito, s’intende – su un paio di riviste benefiche di Milano: una per i sordomuti, l’altra per i ciechi, “che – osserva Attilio Pandini – appaiono oggi come la metafora dell’Italia di quegli anni imbavagliati e oscuri”.
  
Né potrà vedere – Bertacchi – la caduta della dittatura, essendo morto sul finire del 1942 a 73 anni, dopo un tracollo fisico e psichico a cui non fu estranea la condizione di esiliato in patria. Solo dopo la Liberazione le sue spoglie avranno degna e solenne sepoltura sotto la rupe nel cimitero di Chiavenna, dove un sarcofago in cotto, oggi in bronzo, reca i temi più cari alla sua poetica, dalla vita dei pastori a quella degli emigranti. E voglio sperare che trovino finalmente attuazione gli auspici dettati nel 1935 in Novecento dal critico Alfredo Galletti: “penso che la voce poetica dei suoi sogni sarà ascoltata ancora con raccolta commozione quando l’eco di tante altre voci più stridenti sarà svanita”.


Claudio Di Scalzo: Sintetica biografia di Giovanni Bertacchi - LIBRO-WEB 16

Il poeta con il nipote




Claudio Di Scalzo

SINTETICA BIOGRAFIA DI GIOVANNI BERTACCHI
(LIBRO-WEB 16)

Giovanni Bertacchi nasce a Chiavenna il 9 febbraio 1869. Nel 1892 si laurea con una tesi sulla “Raccolta giuntina di rime antiche”. Nel 1895 pubblica Il canzoniere delle Alpi dove le simmetrie della natura alpina custodiscono il suo sogno di realtà totali seppur mediate dallo sconcerto per l’invadenza delle cose e dei vissuti. Tre anni dopo escono i Poemetti lirici dove tenta il connubio fra positivismo e mazzinianesimo confidando in una sorta di prosodia che possa rappresentare il nuovo mondo che avanza. Alle sue spalle, e allo stesso modo ansanti nel secolo che finisce i lineamenti di poeti come Angiolo Silvio Novaro, Lucini, Ada Negri, Roccategliata Ceccardi, Cena, Pascoli. In quello stesso anno, il 1898, si rifugia in Svizzera per motivi politici temendo la repressione in atto a Milano e dintorni contro i moti popolari. Nel 1903 pubblica la raccolta Liriche umane dove compaiono novelle in versi e poesie che elevano il lavoro e la fratellanza umana virate in una patina romantica e suadente. Anche il poemetto in versi sciolti, Le Malie del passato, del 1905, risente di questo populismo amaro. L’anno dopo pubblica Alle sorgenti dove l’arte poetica è ricondotta all’umiltà della congenita erranza del poeta dalla parola alla terra. Nel 1912 Bertacchi pubblica la raccolta A fior di silenzio che propone anche teneri versi d’amore; il poeta è già una scheggia di ottocento nel secolo che si affida all’esplosiva giovinezza, e dissennatezza, dei futuristi o alla malattia crepuscolare e per lui che si affida alla tradizione arriverà di lì a poco dai Papini e da altri, con fare teppistico, la scomunica per questa colpa. Nel 1916 il poeta chiavennasco è chiamato alla cattedra di letteratura italiana all’Università di Padova per chiara fama di poeta. Il suo Canzoniere infatti e le altre raccolte vendono migliaia di copie. Il 1921 è l’anno di Riflessi d’orizzonti. Compare una poesia incline a vaticinare le ragioni metafisiche e sociali della pace fra gli uomini in anni che annunciano rimbombi di guerre sociali e fra gli stati come se una guerra mondiale non fosse già stata combattuta. Con il fascismo al governo e poi al potere totalitario viene costruito un silenzio attorno al poeta sempre più stretto e mortificante. Il suo socialismo ancorché umanitario e nel 1915-18 interventista patriottico non gli risparmiano un sospettoso isolamento imposto dalle autorità politiche e culturali. In questo clima esce nel 1929 Il perenne domani e sarà l’ultima raccolta. Traspare ancora la fede nell’individuo che si organizza nel lavoro e nel mutuo soccorso, ma anche la coltre spessa della malinconia. Dopo verrà il ritiro nel ’36 dall’università, l’affidarsi ad anomime rivistine per cantare magari in dialetto il suo disincanto e la morte il 24 novembre 1942 a Brugherio presso Milano. 


domenica 1 febbraio 2015

GIOVANNI BERTACCHI LIBRO-WEB 15: "Bertacchi il socialista" piccola antologia cura di Claudio Di Scalzo






LIBRO-WEB 15

(a cura di claudio Di Scalzo)
BERTACCHI IL SOCIALISTA

dai POEMETTI LIRICI 
poesie dedicate al movimento proletario e socialista


SERA DI PRIMO MAGGIO

Passa la storia; io sento
ne’ silenzî del tempo
un divenire infaticato e lento;
murmure di fiumana che non sai dove va.

Io guardo fuori, al piano
e veggo in fondo al cielo
un paese di nuvole lontano.
saran procelle od iridi che romperai di là?





 LA CALMA FORZA NOVELLA

Noi non abbiam bisogno di sognare il futuro.
A noi basta il diffuso, calmo, reale avvento
che si compie ogni giorno. Questo moto sicuro
è storia ed è poema in ogni suo momento.

In un tempio germanico grande, semplice, puro,
che Marx eresse alle aure d’un bel rinascimento,
dorme, tra i vaghi albori del secolo venturo,
la vecchia, ingenua musa dell’odio e del lamento.

La vita che perdona, perché tutto comprende,
forse nel male ha posto scopo e ragion pel bene:
è buona guerra questa che l’età nostra imprende.

Giovine forza armata d’opera e di pensiero,
contro l’ordine antico l’ordine nostro viene.
Più che un fulmine d’odio vale un lampo di vero.






    RITORNO DI OPERAIE

Discendevan così, meste e soavi,
dopo il lavoro, per la strada aprica,
cantando una speranza
di redenta fatica:

Stanche sorelle, siamo noi le schiere
bene avviate ad un’età più bella?
La potrem noi vedere
l’attesa era novella?

Ma se pur cessi la fatica e resti
in serene armonie solo il lavoro,
tornerà sempre al mondo
quell’accorato coro.

Nei vesperi laggiù dell’avvenire,
sul ciglio delle verdi umide culle,
vedo ricomparire
un gruppo di fanciulle

che canta a piena gola e con gli sguardi
annegati nel cielo, ed ha nel canto
l’eterna, appassionata
giovinezza del pianto.

Presso i cespugli, sulla via fiorita
Rinascerà, spasimo eterno, amore;
biancospin della vita
rifiorirà il dolore.     


         


GIOVANNI BERTACCHI LIBRO-WEB 14: "Il sacro del positivista" piccola antologia cura di Claudio Di Scalzo






dal CANZONIERE DELLE ALPI, 1895


Campana alpestre

O tu che gemi nel silenzio immenso
patetica armonia che non hai senso,
e dici tante cose,

chiedi tu forse all’aria umida e muta
la canzon degli uccelli e la perduta
fragranza delle rose?

Ridici forse teneri misteri
di lontane memorie a’ cimiteri
del piano e del pendio,

o forse annunzi desolatamente
alla volta de’ cieli indifferente
il tramonto di Dio?



Campane all’alba

I

Fu lei, la bella chiesa là presso al cimitero,
che stamattina all’alba mi diede il ben venuto:
oh, dolce meraviglia del riscosso pensiero
quel riudir dai vecchi bronzi il fedel saluto!

Dei mal ridesti sensi nel crepuscolo muto,
gli affetti, le memorie, le immagini del vero
paion venir da un sogno del bel mondo perduto,
d’un sogno hanno le intense dolcezze ed il mistero.

Squillavan le campane: dal patetico suono
pioveva un’onda all’anima d’indicibili moti,
uscia lenta una fuga di ricordi remoti.

L’irreparabil tempo, lo scorato abbandono
di tanti affetti, il vago desio d’un bene incerto
gemea nell’ora dolce, nel silenzio deserto.

II

Diceano i vecchi bronzi: - Nel crepuscol del giorno,
sempre così cantiamo la nostra avemaria:
noi siam l’amico genio dell’Alpe tua natia;
sia benedetto, o povero fanciullo, il tuo ritorno.

Odi? Al richiamo deste, dalle montagne intorno,
rispondon le romite chiese per l’alba pia:
noi siam della tua valle l’antica poesia…
Sia benedetto, o povero fanciullo, il tuo ritorno.

Sapessi come è bello quassù l’inverno! Al cielo
terso le calme effondonsi perennemente chiare:
biancheggian di recenti nevi i balzi dirotti.

Vieni dell’Alpe ai brevi soli, alle pure notti
de’ verni tuoi: la bianca immensità nel velo
de’ suoi vapori accolga le tue larve più care.






Chiesetta alpina

O di quiete mistica dimora,
tu nello spazio abbandonata stai;
non voto umano; solo omaggio avrai
le intatte nevi e l’aromata flora.

Qui ne l’immensità perdesti l’ora
vana; ma sempre tu la sentirai
La dolce fede che non passa mai,
l’aura che dalle cose alma vapora.

Oh, nella solitudine infinita,
mesto esilio dell’anime! – All’incanto
muto dei cieli, alta sul mondo e sola

piange una squilla, arcana eco, parola
d’ineffabil promessa e di rimpianto
che geme nella vita… oltre la vita…





Cimitero

Là smarrito del cielo in su lo sfondo,
dal solitario culmine montano
accenna forse all’orizzonte arcano
d’in ignoto di là, d’un altro mondo.

Tornan dal pio terren gli atomi al sano
aere, di forme agitator fecondo:
ma il torrente là giù, dal cupo fondo,
canta alla morte, al desolato Invano.

Narra il breve recinto umili storie
d’affetti e dolor; di sulle glebe
parlano al vento l’umili memorie.

Là nei funebri dì la fede sale
come un lamento: una deserta plebe
chiama dal monte all’ultimo ideale.







da POEMETTI LIRICI, 1898


Dalla terra al cielo

Una volta dall’organo di chiesa
guardai la turba dei fedeli: - Ognuno
di quei raccolti cuori
portò qua dentro assai piccola cosa;
umili affetti ed umili dolori,
qualche suo dolce morto,
o qualche suo lontano,
e ne domanda qui pace e conforto
nelle lente armonie di un rito arcano.

Pur nella turba dei raccolti cuori
nasce una cosa immensa.
Laggiù si prega per gli affanni umani;
ma il canto dei ricordi e delle pene,
delle modeste e ignote ansie terrene,
batte, salendo, per l’inconsolata
vòlta dei muti cieli,
si propaga in remota eco di aneli
singhiozzi, e di promesse, e di desìo.
E l’eco umana si tramuta in Dio. –




NOTA