giovedì 6 maggio 2010

GIOVANNI BERTACCHI LIBROWEB 9: Percy, l’anima italica e il Pantheon del futuro.



                                                              Cimitero Acattolico di Roma




GIOVANNI BERTACCHI


LIBRO-WEB 9


Il poeta chiavennasco raccontò su La grande illustrazione d’Italia come si era messo sulle tracce dei “grandi poeti stranieri”, facendo una specie di Grand Tour che imponeva l’amore per i poeti letti e studiati, in questo caso i romantici inglesi, e una specie di calco da riproporre ai lettori composto di giornalismo culturale, si direbbe oggi, e di geografia delle idee. Claudio Di Scalzo


PERCY, L’ANIMA ITALICA E IL PANTHEON FUTURO

Del resto, più che da mala disposizione di Shelley, i suoi giudizi sul popolo italiano erano dettati da una ragione d’amore. L’Italia è così, perché schiava. I veneziani sono vittime delle orde austriache, da cui è oppresso questo miserabile popolo non più vivo, ma immerso in un sogno pieno d’angoscia e di oscuro terrore; in Roma la vita di trecento prigionieri in ceppi che estirpano le erbacce di Piazza San Pietro gli dà l’immagine del servaggio d’Italia. Venuto nel paradiso degli esuli e dei paria, esule e paria egli stesso, egli sapeva di incontrare dei fratelli di miseria e di esilio nei figli medesimi di questa terra e sentiva, in fondo al cuore, di amarli. Non appena il fremito della libertà, nel ’20, comincia a correre le contrade d’Europa e anche il mezzogiorno d’Italia ne è preso, egli, sperando vederlo comunicato alla sua lontana Inghilterra lo traduce nelle due odi solenni a Napoli e alla Libertà, suscitando nel canto le città italiche, belle e fiere come amazzoni, ciascuna con la grandezza sua: «Dalle isole tutto in su fino alla Alpi gelide, l’eterna Italia riscuotesi. Il mare onde son lastricate le solitarie vie di Venezia ride di luce e musica. Genova fatta vedova, pallida, al lume di luna sillaba gli epitaffi dei propri antenati, mormorando: - Ov’è Doria? – La bella Milano nelle cui vene lungo tempo corse – paralizzante – il velen della vipera, alza il tallone per schiacciar la sua testo... Firenze, sotto il sole, delle città la più bella, ha il volto soffuso di porpora per la speranza della Libertà...». È l’avvento, per allora immaturo, della patria mostra, al cui nome il poeta canta così: «Ciò che il sorger del sole è per la notte, ciò che il vento del nord è per le nubi, come l’ardente foga con cui il terremoto, passando, fa rovinar montane solitudini – eterna Italia! – quelle tue speranze e quei timori tuoi siano per te!».


* * *


Chiameremo noi col solo nome di ospite questo straniero che, giunto da poco fra noi si accampa con palpito così fraterno sulla soglia del nostro risorgimento? Nulla egli trascurò di quanto potesse introdurlo nel secreto dell’anima italica. Si avvolse inorridito negli anditi bui dei Piombi e di Sant’Anna, ove rivisse la passione del Tasso; si inebriò nelle tele del Correggio, di Raffaello, del Rosa; dalla Beatrice Cenci attribuita al Reni trasse ispirazione alla sua più profonda tragedia, che è la tragedia di una età e di una società italiana; non parve apprezzare degnamente nelle Sistina gli affreschi di Michelangelo che Camillo Boito definì “una tempesta del Bello”, ma sulla Medusa leonardesca scrisse versi di una potenza sinistra, simili ad altri suoi dai quali, per entro gli elisi eterei delle più delicate visioni, irrompono a tratti fasci di tenebre solcati dai lampi del Terrore e della Desolazione.
Nato anglo-sassone, possedette fin nelle sue grazie più occulte l’idioma d’Italia; penetrò a pieno nelle non facili intimità della poesia petrarchesca e ne svolse i Trionfi, innovandoli, sublimandoli in quel Trionfo della vita sulle cui vette egli salì per valicar nell’eterno. Avverso a ogni culto o dogma, ci insegnò una preghiera nuova, leggendo il Paradiso dantesco nella penombra del duomo di Milano; ripigliati i motivi del Convivio e della Vita Nuova, austeri di fredde astrattezze, pervasi di mistici sgomenti, irraggiati d’un riflesso un po’ pallido di ignote albe sideree, vi immise una più calda passione di vita, li rincolorò di tutte le tinte del creato, li rinutrì delle linfe dei sensi, perseguiti, blanditi, svolti l’uno dall’altro e l’uno all’altro intrecciati, dal colore al profumo al suono, in un processo continuante e cangevole, fin che essa, la parola, sembra venir meno sui cigli dell’infinito.
Certo lo spirito di Dante visitò per tempo il cuore di questo estatico aedo, che riconobbe la terra per salutarla dall’alto e in ogni donna vide un’Idea che lo congiungesse all’universo... «C’era un giovane – scrive egli stesso, in italiano – il quale viaggiava per paesi lontani, cercando per il mondo una donna, della quale esso fu innamorato». Nessuna patria terrena ospitava la donna anelata da lui: ma, di tutte le contrade, questa a cui egli venne per morire era la più vicina al suo sogno.
Per morire, per rinascere.
Se un giorno Roma erigerà un Pantheon al ricordo dei grandi Figli adottivi che ci amplificarono l’Italia, Percy darà fra gli eletti. Il verso di Enotrio nostro esalterà nel marmo l’effige del titano virgineo e i maggi latini rinnoveranno un loro tributo di rose al poeta del mondo liberato e della Favola eterna...


da La grande illustrazione d’Italia, settembre 1924



    

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