sabato 7 febbraio 2015

Giovanni Bertacchi: Quarant’an de scöla. A cura di Claudio Di Scalzo






Il weblog GIOVANNI BERTACCHI LIBRO-WEB aspira ad un suo particolare “federalismo letterario” e cioè a configurare in progress una sorta di geografia letteraria che può, con le risorse del web, svilupparsi anche con le integrazioni di storici locali, di associazioni di collezionisti, di bibliofili e soprattutto di studenti che nella scuola potranno studiare, e completare anche con traduzioni dal dialetto, le poesie dialettali. Base di partenza la Valtellina e la Valchiavenna. Proponiamo un esempio di questa linea editoriale e manualistica, pubblicando sul web, la prima poesia dialettale di Giovanni Bertacchi. La trasposizione in lingua italiana è stata effettuata dagli studenti della V Ragioneria TAF dell’ITCG-LICEO “Leonardo da Vinci” di Chiavenna in una Unità didattica quest'anno - La poesia è stata ripresa dal volume a cura di Guido Scaramellini: Giovanni Bertacchi, poesie dialettali, Chiavenna, terza edizione 2001. 


Quarant’an de scöla, è la prima poesia in chiavennasco del poeta Giovanni Bertacchi (1869-1942), scritta il 12 agosto 1929, a Moena, in provincia di Trento, dove il poeta, dimesso da poco dalla villa Salute di Solbiate Comasco, si era recato per un periodo di riposo. La poesia uscì con la seguente dedica:«al mè caar Lüiis Mèdici scolaar/ una vòlta, adès compàgn de/ viac sü per al mont Parnaas».



Giovanni Bertacchi

QUARANT’AN DE SCÖLA


Coi setimàn, coi mees, a unt a unt,
quarant’an de scolaar, intorno a mi;
vìscoi, magar, grasòt, negar e biunt,
pasavan: mi restava sempar lì.

Restava lì de mèz a la corént
sempar l istés fra tanto cambiamént,
ma d’an in an un pòo püsee piegaa
coma un salis in l’aqua d’un canaa.

Oh, mè scolaar! De tüta quela pila
de libar vec e de vocabolari
ch’em faa pasà ; de tüc quii tanti mila
pàrol sgranaa coma in un gran rosari,

disii sü, disii sü còsa l ve rèsta
in di cantòn del cöor e de la testa!
Forsi ognintün l ha gnanca ritegnüu
al düu per cent de quel che l ha legiüu.

Ah sì, la vita l’è una grama banca,
dove se vèrsa tüt con gran pasìon;
ma a pòoch a pòoch l capitàl al manca
e l interès al cala in proporziòn.

Di terén fecondaa con tant süduu
ti te catet a pena un früt, un fiuu;
ti te credet de fa bèla figüra
e pö gh’è gnanca un can che se ne cüra.

A meno che tüt quel che se lavora
con pòoch costrüt in l’ombra de sta val
no l vaga de quai paart, lasü desura,
a cambiàs in d’un òltar capitàl;

capitàl infalibil che l nòst cöor,
quant in tèra l sa piü quel l se vöor,
al cerca a vòlt, in di monete d’argènt
d’una banca che früta l cent per cent.



TRADUZIONE DAL DIALETTO CHIAVENNASCO E BREVE PARAFRASI

Con le settimane, con i mesi, uno ad uno, sono passati quarant’anni con scolari attorno a me, vivaci, magri e grassi, neri e biondi, facevano il suo corso: e io restavo sempre li.

Restavo li in mezzo alla corrente, sempre uguale fra tanti cambiamenti, ma di anno in anno sempre un po’ più piegato, come un salice nell’acqua di un canale.

O miei scolari, di tutta quella pila di libri vecchi e di vocabolari che avete studiato, di tutte quelle parole sgranate come in un rosario, ditemi, ditemi cosa vi resta in un angolo del cuore e della testa!

Forse ognuno non ha neanche tenuto il due per cento di quello che ha letto.

Ah si! La vita è una povera banca, dove si versa tutto con gran passione; ma a poco a poco il capitale diminuisce, e l’interesse cala in proporzione.

Dei terreni fecondati con tanto sudore, tu cogli solo un frutto, un fiore; tu credi di fare bella figura, e poi non c’è neanche un cane che se ne cura.

A meno che tutto quello che si produce nell’ombra di questa valle non valga da qualche altra parte, lassù in alto, e si possa cambiare in un altro capitale;

capitale infallibile che il nostro cuore, quando in terra non sa più quel che vuole, cerca in alto, nelle monete d’argento di una banca che frutta il cento per cento.





Scritta da un Bertacchi sessantenne che trova rifugio nel dialetto per affidarsi all’ironia e al sarcasmo, dopo quarant’anni di carriera scolastica: dai piani medio alti della scuola liceale a quelli altissimi dell’università di Padova, elenca il servizio indefesso, la lunga sfilza di studenti, le pile dei libri e dei vocabolari, le lezioni interminabili, per chiedersi cosa rimane di questa maratona didattica. Qualcosa sarà rimasto in qualche angolo del cuore e della mente? Poco, non proprio niente, ma poco sì, dice a se stesso il poeta con candido scetticismo volutamente irridente su se stesso: forse neanche il due per cento, perché da un terreno seminato si può cogliere solo un frutto, un fiore. E poi un velato riferimento autobiografico alla condizione del poeta, su cui il fascismo aveva imposto il silenzio: «credi di far bella figura/ e poi non c’è neanche un cane che se ne cura». Il dubbio sull’efficacia della trasmissione del sapere, molto moderno se non post moderno sentenziato dal poeta, non viene riscattato da un premio nella trascendenza di un mondo latro, come chi cattolico vuol far diventare a forza l’agnostico e socialista Bertacchi un adepto teista, bensì il poeta, con fine ironia, propone un ulteriore dubbio teologico affermando che tutta questa fatica, forse, avrà una ricompensa nell’al di là.
Il Medici, amico e biografo del poeta, volle interpretare lo scetticismo del poeta come propriamente antifascista, e dare alla poesia un valore contestativo del modello gentiliano – il filosofo Gentile fu l’autore della riforma scolastica nel ventennio, riforma per certi versi sopravvissuta anche negli anni della Repubblica –, che tendeva alla nozione, a un sapere calato dall’alto, e poco incline a liberare le coscienze individuali e singolari dello studente.


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